Nel Lohengrin che ha inaugurato il festival di Savonlinna il regista Roman Hovenbitzer riflette sull’impossibilità di amare
SAVONLINNA, 5 luglio 2024 – Appare come un sogno, desinato però a svanire, l’amore della giovane coppia protagonista. A firmare Lohengrin, spettacolo inaugurale di Savonlinna (benché ripresa di un allestimento di undici anni fa), festival operistico finlandese con una lunga storia all’attivo, è Roman Hovenbitzer. Il regista tedesco riesce a utilizzare molto bene uno spazio non tradizionale, come il palcoscenico ricavato nel cortile del castello di Olavinlinna, il più antico e suggestivo maniero medievale della Finlandia, ricoperto da un soffitto mobile che rende possibili le messinscena anche in caso di maltempo. Punta su una serie di trovate che, pur correndo il rischio di essere un po’ dispersive, rendono lo spettacolo perfettamente leggibile pure a chi non ha troppa familiarità con il capolavoro composto da Wagner nel 1848.
L’idea del sogno è suggerita, immediatamente, dal cigno con cui gioca il piccolo Gottfried, e che ritornerà alla fine, quando Elsa e il fratellino si baloccano nuovamente con l’animale divenuto simbolo di questa leggenda medievale. Nel frattempo si snoda la storia: l’arrivo del misterioso cavaliere in soccorso di Elsa; la nascita di un amore purissimo e assoluto, destinato però a breve durata; la contrapposizione di questo sentimento con il rapporto, assai più arido, tra Ortrud e Telramund, legati solo da brame di potere. Dal punto di vista visivo, poi, la semplice scena – stratificata su più livelli – di Hermann Feuchter, insieme ai costumi insieme moderni e senza tempo di Hank Irwin Kittel, si armonizza bene con la parete rocciosa del castello, che funge da fondale del palcoscenico e contribuisce a rendere funzionale lo spettacolo.
Sul podio della Savonlinna Opera Festival, il direttore Stephan Zilias – una carriera soprattutto in area tedesca – ha guidato con sicurezza gli strumentisti finlandesi traendone sonorità nitide e precise (basterebbe pensare all’apprezzabile intonazione mantenuta dalle trombe), anche se non sempre affiorava la meravigliosa trasparenza e luminosità della partitura. Forse latitava un po’ quel flusso continuo che caratterizza il tratto distintivo della musica wagneriana (i Leitmotiv suonavano più segmentati che realmente fusi nel tessuto sonoro), ma la buona scorrevolezza esecutiva era comunque assicurata.
Il cast vocale ha offerto motivi d’interesse. Molto espressiva, nei panni di Elsa, il soprano Sinéad Campbell Wallace, che, dopo un inizio un po’ anonimo, è stata protagonista di un avvincente terzo atto in cui affiora la volontà di ribellione di un personaggio – per tradizione – piuttosto passivo. Al protagonista, il giovane Tuomas Katajala, raffigurato dalla regia come una sorta di artista latore di aspirazioni libertarie, va riconosciuta soprattutto un’apprezzabile tenuta, senza vistosi cedimenti come spesso accade ai tenori wagneriani odierni. La coppia matura era affidata a una star – finlandese, ma anche internazionale – come Karita Mattila e all’italiano Lucio Gallo. La prima, in passato, è stata una grande Elsa. Qui, alle prese con il personaggio di Ortrud, ruolo vocalmente anfibio, si trova più a suo agio nella regione acuta, ma riesce ugualmente a imprimere agli affondi gravi quei significati espressivi che contribuiscono a delineare una figura di donna manipolatrice del marito e autentico genio del male. Lucio Gallo, collaudato baritono wagneriano, punta – attraverso un canto che spesso sconfina nello Sprechgesang – soprattutto sulle sfaccettature psicologiche di Telramund, disegnando una figura tormentata e violenta, un personaggio che non sa risolversi tra l’onore e la sete di potere. Arbitro politico delle contese, Enrico l’Uccellatore, primo re identitario di una Germania che si unificherà solo in un futuro di là da venire (è diventato infatti un’icona nazista, tanto che la regia ne fa una citazione del dottor Stranamore), era interpretato dal basso Timo Riihonen: voce rotonda e fraseggio morbido nel registro grave, meno a suo agio in quello acuto. Completava il cast Kristian Lindroos, baritono di bel timbro, che plasma un Araldo di voce salda e svettante. Peccato invece che il coro abbia evidenziato qualche problema di appiombo e sincronia.
Il finale, di notevole suggestione con i clangori di guerra che echeggiano anche tra il pubblico, contribuisce a sancire in modo definitivo la fine del sogno: l’impossibilità di realizzare l’utopia dell’amore viene acuita dallo scontro generazionale – sono spesso i vecchi a scatenare i conflitti – che qui appare ancor più evidente e insanabile. E soprattutto drammaticamente attuale.
Giulia Vannoni